E' studiare tutte le forme e tutte le possibili combinazioni di struttura.
E' inventare dei mezzi (semplici bastoni di legno) che con esso interagiscono, levigandolo, plasmandolo, innalzandolo fino ad una gradibilità.
E' far rivivere la casualità, l'imprevisto, l'imponderabile, lo sconosciuto.
E' dare l'immagine astratta e reale mai desiderata dell'uomo nell'altro da se.
E' La materializzazione del movimento nello spazio, dentro un tempo fisso.
E' essere in un presente pieno dove la mancanza è qualcosa al di là che non mi riguarda.
In occasione degli ultimi lavori di Ivano sono sorte
molte discussioni, sia fra noi due soltanto che con altri amici a cui hanno partecipato
con la consueta simpatica vivacità di idee e di riflessioni i soci del Centro Artistico Argentano.
Sarebbe stata mia intenzione riportare qui tutti gli argomenti che si sono venuti,
sviluppando, ma di solito io non sono una brava cronista.
Riesco a fissare per scritto solo quello che sono riuscita ad assorbire dentro di me e che
il mio cervello ha già trasformato abbondantemente, in modo tale che forse i suddetti
amici, stenteranno a riconoscerci.
Comunque ciò non toglie che tutto quello che è stato detto non mi abbia influenzato.
Tutt'altro, a mio avviso dimostra il contrario.
Cercando di riordinare le idee, dirò che tutto è nato da una attenta riflessione che
Ivano ha fatto sui lavori fatti l'anno scorso. I bastoncini puliti e ammucchiati nelle
posizioni più varie, i panni
colorati stesi ad imitazione del lavoro domestico delle donne, hanno costituito nello
sviluppo artistico (di ricerca) di Ivano un punto di rottura irreversibile da un modo di
fare arte accademistico -artigianale da cui derivava da vari anni di studi in scuole
predisposte a questo compito.
Aggiungo per meglio comprendere il valore di questo fatto, che si è trattato della
scoperta di un linguaggio suo personalissimo originato dalla voglia di comunicare in modo
semplice e originale, povero nei materiali, ma ricco di immaginazione.
Accanto a questa riflessione a carattere estetico -formale le nostre discussioni hanno
sempre mantenuto, sia pure con difficoltà una motivazione politica di fondo.
Anche questa ricerca ha origini lontane, partiva con la polemica fra realismo e
astrattismo, vecchia polemica del movimento operaio, che in ogni caso non ci ha mai visti
sul fronte di coloro che sostenevano il realismo in quanto linguaggio più facile e quindi
più comprensibile alle masse.
La gente anche la più semplice capisce o può capire anche le questioni più complesse se
solo vi è l'interesse e la volontà di comunicargliele con mezzi diversi.
Anche il linguaggio teorico della critica dell'economia politica è estremamente difficile
e astratto, ma i lavoratori lo hanno fatto loro, lo hanno compreso perché è parte della
loro coscienza di classe.
Così appunto i lavori dello scorso anno, incentrati su questioni a carattere formale, non
riuscivano se non con alcune forzature a tenere conto di quelle esigenze contenutistiche
che sono fortemente radicate nella coscienza di Ivano.
Tutta questa problematica si manifesta nella volontà di controllare quel linguaggio
scoperto in modo cosciente per fargli dire i pensieri che nascevano nella sua testa.
Un linguaggio che è solo gioco non riesce a esprimere pensiero se non per un caso
fortuito o per lo meno per vie incontrollabili.
E' vero che i panni distesi stavano ad indicare il lavoro domestico svolto dalle donne, ma
poi come fare esprimere il carattere doppiamente alienato di questo lavoro?
Come dire l'emarginazione che sta dietro a quella forma inconscia di arte che le donne
sviluppano?
Si tratta dunque di dare un ordine al caso con cui quegli oggetti si combinavano tra di
loro, e di fare scaturire un nucleo razionale dal caos.
Così come da una società dominata dal caos, dall'egoismo si tratta di trarre il
contenuto razionale della coscienza dei lavoratori che rende vere le esigenze di giustizia
di tutti.
Attorno a questa esigenza di razionalità che Ivano veniva esprimendo, si sono innestate
la maggioranza delle critiche; tutte più o meno rivendicavano i contenuti specifici
dell'arte che sono il sentimento, l'emotività, ma lungi da lui deve stare il pensiero che
anzi è la sua morte stessa.
Di questa argomentazione ciò che più mi sorprendeva era il modo drastico e netto con cui
sentimento e pensiero venivano separati.
Dentro di me si è installato questo dubbio: perché? - Perché il pensiero è la morte
del sentimento, e il sentimento la morte del pensiero? - L'uno esclude l'altro.
Pensavo a Hegel e agli hegelanovisti, pensavo alla voglia che io stessa avevo di unire
queste due attività in un comune accordo: pensiero e sentimento.
Per strade diverse ero giunta al punto di partenza di Ivano. Conciliare queste due esigenze
in una forma artistica, calcolata e istintiva, pensata e ugualmente viva, strana e
calcolata.
La mia vita che scorreva nei ricordi che di essa mi rimanevano, pareva parlarmi di questa
esigenza-aspirazione sempre irraggiungibile, ma sempre presente.
Il razionale e l'irrazionale che convivono non più scontrandosi, ma alleati in una
medesima volontà di espressione libera, cosciente, ricca, personale.
In una società in cui la razionalità è il lavoro alienato, e l'irrazionalità è la
sessualità repressa, l'emotività negata, la creatività mortificata, noi vogliamo
pensare ad una possibilità in cui tutte queste istanze trovino una conciliazione
liberatoria, una esplosione magicamente gestita dall'interno. Tutto questo che è così
difficile da esprimere anche in un foglio scritto, Ivano ha cercato di dirlo con i suoi
ultimi lavori. I suoi assurdi giochi di colore, di segni, di combinazioni avevano saputo
comunicare il loro messaggio di calma e serena utopia.
Impruneta - maggio 1978
"Centro Artistico Argentano" - Fiera di Argenta (Ferrara) 2-3-4-5 settembre 1977
INTERVENTI ARTISTICI NELL'AMBIENTE ARGENTANO DI IVANO VITALI
Quando parliamo di arte con la pretesa di farne la
critica e di darne i moduli per l'interpretazione, dovremo in primo luogo presentare la
giustificazione d'esistenza della stessa critica d'arte.
Ciò significherebbe produrre una teoria dei fondamenti e del metodo di questa pratica che
è venuta sviluppandosi e consolidandosi accanto all'arte generalmente mantenendo un
atteggiamento ambiguo nei confronti delle proprie finalità.
Una teoria simile credo che ancora non esista in una esposizione completa e sistematica,
ed ancora molto lavoro deve essere fatto.
Dovremmo dunque scegliere di tacere di fronte ad una questione così complessa?
In effetti preferiamo aggirare l'ostacolo, e di arte in senso stretto non parleremo, ma
useremo concetti tratti da altre discipline che possono rivelarsi illuminanti.
Ed è di nuovo il materialismo storico e dialettico che nei limiti delle nostre conoscenze
può rivelarsi una fonte generosa di concetti utili al nostro scopo.
Da più di un secolo gli intellettuali, i produttori di cultura in generale tentano di
darsi una collocazione di classe diversa da quella che occupavano precedentemente accanto
alla classe dominante.
E' un processo che si è svolto lentamente in alcuni casi, in modo drastico in altri e che
ha interessato successivamente gruppi di intellettuali diversi: filosofi, storici, letterati
ed anche produttori d'arte.
Lo studio di questo "processo"si complica ulteriormente quando a questo si somma
la teoria che gli stessi intellettuali producevano di questo distacco e di questa
conseguente scelta.
Le cose erano così strettamente legate che, a mio avviso, tanto più puntuale e
articolata era la teoria da essi prodotta, tanto più saldamente tenevano la posizione
conquistata sul nuovo terreno rivoluzionario.
Meglio potevano resistere nelle battaglie ideologiche, alle tentazioni di arretramento,
alle mistificazioni della destra, ed occasioni di questo genere si sono presentate varie
volte in questo ultimo secolo.
Certo che il settore meno conquistato al marxismo e alla nuova scelta di classe è stato e
in gran parte resta ancora proprio quello dei produttori d'arte e questo per varie ragioni
più o meno chiare. Non sarebbe onesto qui generalizzare, ne dare spiegazioni definitive,
valide per ogni epoca e nazione.
Mi sembra accertato comunque, che il ricatto economico imposto a questi ricercatori da
parte della borghesia ha funzionato in modo tenace fino a circondare questo lavoro con
miti ideologici resistentissimi alla critica.
Ad esempio all'analisi il mito della "libertà dell'artista" rivela la sua reale
funzione di copertura della effettiva libertà in cui essi operano.
Ancora oggi di fronte a certi contenuti politici dell'arte si fanno strane obiezioni e
tentennamenti in nome di una purezza completamente astratta del messaggio artistico.
In questa confusione ideologica si finisce poi per scambiare una posizione ancora tutta da
conquistare come l'autonomia dell'arte con un mito del passato; di un periodo cioè in cui
veramente l'arte era stretta nei confini di un rigido controllo da parte del potere.
Svelare questi miti e tanti altri ancora non è stata impresa da poco, anche
perché non
era affatto sufficiente che l'artista scrutasse nella propria coscienza per scoprire tutte
le implicazioni della sua condizione.
Si sono dovute creare nuove condizioni storiche, l'uomo e l'artista hanno dovuto vivere e
conoscere la verità nella evidenza della loro vita quotidiana per cogliere in pieno il
significato e la portata rivoluzionaria e innovativa.
I propri disagi, i propri errori, le contraddizioni di questa società che lui viveva in
prima persona sono diventati i nuovi contenuti del suo discorso e della sua ricerca.
La critica alla società ha assunto in primo luogo la forma del rifiuto del mercato
dell'arte a cui egli forniva oggetti di nessun valore, casuali i quali malgrado tutto
venivano subito assorbiti dal ciclo consumistico del capitalismo avanzato, in grado di
ridistribuire oggetti-merce di qualunque genere e di plasmare il gusto in ogni direzione
generando bisogni nuovi.
Dai materiali poveri, agli escrementi in barattolo, ai gesti più naturali (arte
gestuale), ogni esperienza alternativa era un tentativo già fallito in precedenza.
Ma alla fine il salto di classe in qualche modo era stato fatto. Nella riflessione
artistica erano entrate più o meno consciamente idee fondamentali del marxismo, come
l'analisi della merce e un netto rifiuto alla riduzione ad oggetto della creatività,
infine, dell'uomo nella pianezza delle sue manifestazioni.
Il processo e la riflessione che conducono a questa nuova concezione è complesso e
faticoso, ma alla fine ha aperto un campo di possibilità stimolante e ricco. La critica
ai miti classici dell'artista e dell'arte, a tutta l'ideologia che circondava questo
lavoro ha aperto spazi più vasti alla stessa fantasia artistica.
Lo sguardo del ricercatore liberato dai limiti accademici si è fatto acuto e interessato
a tutte le manifestazioni della vita quotidiana che potevano salvare interessi estetici
insospettabili. Il gusto del bello si è piegato ad una maggiore dialettica, si è riempito
di significati nuovi e profondi; della sofferenza del proletariato, della sua immensa
riserva di contenuti creativi.
Non è forse un caso se Ivano parla spesso dell'interesse che gli suscita il lavoro del
contadino, un lavoro non ancora completamente suddiviso e alienato e che per questo si
riempie anche dei contenuti creativi personali del lavoratore. Il suo tentativo può essere
quello di avere estratto questo aspetto del lavoro dei campi per riproporlo alla gente che
in questo modo può prendere coscienza del valore che esso ha.
Si può rimanere colpiti dalla semplicità di questa operazione, se non si riesce a
vederne le implicazioni ultime. Di fatto in esso è implicito il rifiuto della concezione
di un bello assoluto eterno, del bello ideale di tipo razionalistico.
Anche "l'estetico" deve essere sottoposto alla storicità degli eventi umani,
deve cadere dal suo piedistallo di potere per essere riportato alla vita degli uomini.
In una società così fortemente repressiva e ingiusta, così piena di contraddizioni é
operante in modo continuo e sistematico un atteggiamento ideologico indotto negli uomini
che tende continuamente a scoraggiarli e negare loro la funzione di soggetti storici,
rendendoli impotenti e passivi di fronte ad un meccanismo sociale che sembra funzionare
autonomamente, ma che al contrario riesce a sopravvivere a mala pena proprio grazie a
questo atteggiamento diffuso.
Troppo facile sarebbe cedere a questa tentazione; occorre capire che anche questa è una
forma di collaborazione. E' evidente che per abituare un uomo a vivere sotto questa cappa
di piombo del quotidiano, occorre sviluppare un'educazione rigida in ogni settore, che
lentamente spenga in lui ogni voglia di contare qualcosa, ogni fiducia nelle proprie
capacità.
Così nella scuola si apprende un atteggiamento nei confronti della cultura che è più di
rispetto formale che di un vero interesse alla conoscenza. Nel corso degli anni vengono
frustrate la curiosità, le intuizioni personali, le domande spontanee, gli interessi
particolari, fino a costituire un certo conformismo culturale. Ed è con questo
atteggiamento che in genere si vedono le mostre senza viverle, senza parteciparle,
dimenticandosi che anche questa sede è un'occasione per riappropriarsi di una parte di
sé che questa società ci ha alienato.
Ed è proprio perché crediamo profondamente che queste occasioni siano importanti che
Ivano ed io ci presentiamo anche quest'anno ai compagni con questo appello fiducioso alla
fantasia e alla voglia di discutere insieme sui temi che ci hanno interessato; e senza
proporre niente di definitivo vogliamo dare a questo lavoro il senso di una ricerca
collettiva.
La cultura e l'arte hanno bisogno di tempo, ed è con questa apparentemente innocua scusa
che i ricchi, quelli che tempo ne hanno perché non debbono lavorare, se ne sono arrogati
la gestione fino a considerarla una loro facoltà naturale, eterna.
Quando i filosofi marxisti rivendicarono anche ai lavoratori il diritto a partecipare a
questa forma di manifestazione dello spirito umano, si rendevano conto di non fare una
semplice affermazione formale, ma di operare uno sconvolgimento radicale. Appropriarsi
della cultura significava togliere una gran parte del potere effettivo dalle classe
dominante.
Ma l'arte e la cultura hanno veramente bisogno di tempo, di questo non c'è dubbio. E si
è lottato perché si riducesse l'orario di lavoro, in modo che ogni lavoratore avesse un
pò di tempo per leggere, partecipare alla vita culturale del paese.
Ma il potere politico ha paura di questo tempo libero del lavoratore, esso si rende conto
che l'operaio, impadronitosi facilmente del linguaggio culturale, riesce a penetrare,
svelandole, le mistificazioni sociali ed economiche della società borghese.
Si è pensato bene, quindi, di riempire questo tempo libero con mezzi che diffondono falsa
cultura o con varie distrazioni, integrando il tutto con una scuola che sempre meno
fornisce cultura e che sempre più svela il suo carattere di condizionamento ideologico.
Certo che tutti questi discorsi non costituiscono una novità, soprattutto per chi come
noi, vive nel mondo fittizio dell'Università, circondato da intellettuali che si sentono
di avere già bruciato tutte le tappe delle trasformazioni sociali per il solo fatto di
averle lette sui libri.
D'un tratto scopri che c'è ancora chi legge fotoromanzi o fumetti odiosi, che guarda
programmi televisivi che sono un insulto all'intelligenza, chi va al cinema senza nessun
criterio di scelta. Quindi parli, consigli, capisci che occorre fornire alternative
mediante centri culturali democratici i quali devono costituire il tramite fra lavoratore
e la cultura.
E forse non è nemmeno il caso di stare tanto a sottilizzare su come deve essere questa
cultura se alternativa o borghese, se classica o avanguardista; a me sembra sufficiente,
per ora, operare questi collegamenti, dare degli strumenti critici, utili per la
sopravvivenza intellettuale di tutti noi.
Ma il tempo è poco ugualmente, e questo lo sanno soprattutto le donne, che nei centri
culturali figurano ben poco, coinvolte come sono nella spirale del lavoro domestico.
E mentre altrove ci si dà un gran daffare a parlare di recupero della creatività
femminile, di liberazione della donna, nei paesi ritrovi la desolante realtà di un mondo
femminile esiliato dall'attività culturale e che, di conseguenza continua a perpetuare
schemi di comportamento e di pensiero ormai abbondantemente superati dalla realtà
effettiva.
Non avere agganci con la cultura significa lasciarsi superare dalla storia, dalla realtà:
equivale quindi a un "non vivere".
Ed è perché siamo sinceramente convinti di questo che Ivano ed io pur lottando con il
tempo, intendiamo proseguire le nostre ricerche e i nostri studi, ognuno nel suo ambito,
magari aiutandoci, ogni volta criticando i modesti risultati raggiunti, ma decisi a non
rinunciare e ad incoraggiare tutti quei lavoratori che sentono le nostre stesse esigenze.
Impruneta - giugno 1976
Sculture e disegni di Ivano Vitali dal 2 al 30 luglio 1975
Ivano si è organizzato uno studio in una stalla
abbandonata che si trova sulle colline dell'Impruneta presso Firenze. I materiali che egli
usa sono molto poveri: o scolpisce pietre che trova nella campagna intorno, o lavora con
cemento, gesso, creta, ecc.
La povertà dei materiali e le loro caratteristiche costituiscono un limite alla sua
fantasia e alla sua voglia di cercare nuove soluzioni formali, ma in un certo senso lo
aiutano ad allontanarsi da quel processo commerciale che dalla nascita del capitalismo ha
invaso il campo dell'arte sacrificando ciò che di apprezzabile esiste nel prodotto
artistico, cioè la libera espressione dell'uomo, a favore delle esigenze del mercato.
La coscienza chiara di non volersi mai sottoporre a questo ricatto, perché di ricatto si
tratta quando interviene la necessità di mantenersi, si è maturata durante lunghe
discussioni con amici e durante dibattiti pubblici.
Punto di partenza e di arrivo di tali discussioni erano costituiti dall'analisi della
realtà sociale, politica ed economica in cui viviamo poiché da questa mai si può
prescindere quando si prende in esame la cultura; e dopo aver individuato i punti centrali
della questione ci siamo posti il problema del superamento di questi ostacoli.
A questo punto il "Centro Artistico Argentano" così strutturato si è
presentato a noi come un mezzo alternativo, in senso concreto, a quel meccanismo
alienante che noi avevamo criticato.
Con esso si dava la possibilità di mettere in comunicazione il produttore di tali opere
con le masse (soprattutto con le masse lavoratrici perché a loro deve indirizzarsi la
cultura), senza che la mediazione commerciale rendesse falso e sbagliato il rapporto.
Se il mezzo è giusto non è detto che sia sufficiente; la comunicazione è ostacolata dal
fatto oggettivo che le masse non hanno i mezzi per intervenire in modo cosciente ed attivo
in questo rapporto.
Basta pensare alla conquista e alla prima applicazione della clausola contrattuale delle
"150" ore per rendersi conto di quanto si stia diffondendo questa esigenza di
partecipazione alla cultura.
D'altra parte le stesse difficoltà trovano le nuove generazioni che escono da una scuola
che non è ancora in grado di indirizzarli verso questo confronto critico.
Questi sono alcuni aspetti di una problematica assai vasta, (non possiamo dimenticare lo
stato in cui si trovano i nostri musei, e in generale tutto il nostro patrimonio
artistico), che non posso qui esaurire, ma questa impostazione si rende necessaria nel
momento in cui si vogliano dare delle indicazioni al nostro lavoro di ricerca per una
nuova nozione della natura, della funzione sociale, dell'uso e della promozione dei beni
culturali.